La Commissione lombarda, istituita ai sensi del d.l.l. 21 agosto 1945, n. 518, iniziò i propri lavori nei primi mesi del 1946, trovando collocazione a Milano, al secondo piano di una palazzina di via Albania 36, nei locali già precedentemente occupati dal Comando generale del Cvl.
La composizione della Commissione, al momento della sua costituzione, raccoglieva alcuni dei nomi più importanti dell’antifascismo e del movimento di liberazione lombardo e nazionale: Gustavo Ribet, nelle vesti di Presidente, Valentino Bandini e Augusto Attal (formazioni autonome), Paolo Caccia Dominioni e Sergio De Angelis (Brigate del popolo), Guido Mosna e Agostino Balconi (Brigate Matteotti), Geo Agliani e Giuseppe Musci (Brigate Garibaldi), Enrico Gandolfi e Antonio Bivini (Giustizia e libertà) e infine Vinadio Balbo e Giovanni Di Sardagna quali rappresentanti delle Forze Armate.
L’ambito di competenza territoriale assegnato alla Commissione comprendeva tutta la Lombardia e la provincia di Novara, dove venne istituita, nel corso del 1946, una sede staccata con il compito di trattare in maniera più capillare gli affari relativi alle formazioni che erano state operative in quei territori.
Le commissioni, per la natura dell’incarico loro affidato, si ritrovarono ben presto al centro di complesse relazioni che ne fecero l’ago della bilancia nei rapporti tra Roma e le periferie del paese. Da una parte esse si trovarono ad assorbire e metabolizzare le spinte provenienti dai territori, segnate da forti istanze morali e politiche. Dall’altra dovettero invece interfacciarsi con i ministeri incaricati di ordinare i variegati contesti locali all’interno di un quadro normativo coerente e omogeneo. Situazione che pose spesso i presidenti e i commissari al centro di dinamiche conflittuali e che diede alle Commissioni il difficile compito di applicare circolari e direttive spesso del tutto inconciliabili con le caratteristiche proprie del Movimento di liberazione.
In prima battuta la Commissione lombarda dovette affrontare il nodo di come pianificare il proprio lavoro e regolamentare gli aspetti procedurali che non erano stati disciplinati dalla normativa vigente e dalle circolari ministeriali. Si trattava di dover stabilire regole e procedure condivise, trovando un compromesso tra le diverse sensibilità politiche e le esigenze di cui si fecero portavoce i rappresentanti delle diverse formazioni.
Molto articolata la procedura adottata per la raccolta della documentazione, il suo spoglio, il vaglio delle informazioni e la formulazione del giudizio finale, così come si evince da una circolare della Commissione datata 22 dicembre 1945:
A livello locale lo spoglio dei singoli fascicoli per l’attribuzione delle qualifiche e la raccolta dei materiali istruttori venne organizzata attraverso la convocazione a scaglioni e su base provinciale dei comandanti delle formazioni partigiane riconosciute, i quali discutevano ogni caso alla presenza dei referendari competenti.
La Commissione si trovò ben presto alle prese con la gestione di una mole enorme di pratiche da dover evadere, facendo i conti con la strutturale carenza degli strumenti messi a disposizione: ancora nel settembre del 1947 il Presidente della Commissione era costretto a far presente che le macchine da scrivere messe a disposizione dalla Postbellica non erano sufficienti al fabbisogno dell’ufficio. A complicare il quadro inoltre le attestazioni e i riconoscimenti già attribuiti dalle commissioni nate in seno agli Uffici di smobilitazione e determinati sulla base delle disposizioni e dei criteri stabiliti dal Comando Generale del Clnai e del Cvl con circolare del 19 maggio. Estremamente variegate erano poi le formule e i canali attraverso i quali pervenivano le domande, che vedevano l’intervento di numerosi soggetti mediatori, dagli ex comandanti delle formazioni fino ad improvvisati uffici di assistenza locali nati in seno all’associazionismo partigiano, passando per le sezioni di partito cittadine e provinciali. Una situazione caotica alla quale si assommarono le disomogenee capacità delle formazioni di reperire notizie precise sulla propria attività e sul numero e i nominativi degli effettivi coinvolti durante l’attività clandestina, situazioni che causarono ritardi nell’evasione di molte richieste e continui scavalcamenti da parte di persone che, a fronte dei ritardi, attivarono canali individuali e amicali nel tentativo di sveltire le procedure. L’entità della confusione può essere misurata tenendo conto delle statistiche pubblicate il 30 aprile del 1947: fino ad allora erano stati riconosciuti 26.827 tra partigiani combattenti, feriti mutilati e invalidi e patrioti, mentre erano state rigettate 21.869 domande. Numeri notevoli ma comunque ben al di sotto di quelli registrati dalle Commissioni vicine: quella emiliana aveva infatti nello stesso arco di tempo attribuito 63.356 qualifiche e ne aveva rigettate 34.890 mentre quella triveneta si attestava a 53.664 riconoscimenti e a 10.496 rigetti.
Alla fisiologica confusione venutasi a determinare a causa della sovrapposizione di procedure difformi e dei molti soggetti coinvolti, si sommò presto la difficoltà incontrata dai commissari nel far fronte ad un incarico decisamente gravoso e non adeguatamente retribuito, soprattutto all’inizio. I compiti del commissario avrebbero dovuto richiedere un impegno esclusivo e un corrispettivo economico proporzionato ma l’assenza di riconoscimenti concreti si tradusse nella presenza di molti commissari alle prese con altre attività politiche e professionali. Ciò provocò delle inevitabili conseguenze sul buon andamento della struttura: in una lettera del 6 novembre del 1946 inviata a tutti i fiduciari da Enrico Gandolfi, segretario della Commissione, si lamentavano ad esempio le continue assenze e i ritardi negli incontri programmati con i comandanti delle formazioni e nelle sessioni plenarie della Commissione, l’impreparazione di alcuni rispetto ai temi oggetto dei singoli incontri nonché ritardi nella consegna all’archivio di schede e fascicoli personali.
Sui commissari erano inoltre frequenti le pressioni, sia da parte delle formazioni di cui erano rappresentanti sia di chi aveva presentato la domanda ed era in attesa di una risposta. È quanto denunciava ad esempio Augusto Attal in una lettera in cui esponeva l’intenzione di voler rassegnare le proprie dimissioni in qualità di rappresentante delle Fiamme Verdi dati gli attestati di sfiducia di cui era stato fatto oggetto da parte di alcuni comandanti delle formazioni e le continue visite ricevute presso la propria abitazione e le minacce rivolte verso la sua persona da «aspiranti partigiani».
A rendere inoltre defatigante il lavoro dei commissari il fatto che tutte le missioni legate allo svolgimento del loro incarico dovessero essere, preventivamente e con congruo anticipo, comunicate dal Presidente e autorizzate dall’ufficio del Ministero competente. Ciò rese lenta e farraginosa l’organizzazione delle necessarie riunioni a livello provinciale con i comandanti delle diverse formazioni e scoraggiò l’iniziativa dei commissari che correvano il rischio di non vedersi riconoscere le indennità di missione. Inoltre il Presidente per ogni esercizio finanziario era tenuto a preventivare in anticipo il fabbisogno economico della Commissione suddiviso per capitoli di spesa, senza avere però la possibilità di far fronte a spese impreviste o emergenze. Stante questa situazione non sorprendono dunque le costanti rinunce all’incarico da parte dei commissari e l’elevato numero di sostituzioni che costellò l’attività della Commissione lombarda.
Notevoli anche i problemi riscontrati con il personale impiegato negli uffici della Commissione. Alle segreterie erano affidati molti e gravosi compiti, elencati dalle direttive ministeriali, tra i quali l’avvio delle istruttorie per le pratiche di riconoscimento, le comunicazioni con il Ministero dell’assistenza post-bellica la redazione e pubblicazione degli elenchi, l’accoglimento e la trasmissione dei ricorsi, il rilascio dei diplomi di partigiano e patriota. Il personale assunto presso le segreterie delle Commissioni doveva essere in possesso della qualifica di «partigiano o almeno, nel caso di personale di quarta categoria, patriota» e veniva selezionato e assegnato dagli uffici ministeriali competenti. L’impossibilità da parte dei presidenti di procedere personalmente alla selezione ingenerò presto molti problemi. Nel caso della Commissione lombarda il personale subì costanti rotazioni tra accuse di indegnità morale formulate contro alcuni impiegati da parte dell’Anpi e scarsità di rendimento e preparazione. Non mancarono inoltre provvedimenti di licenziamento contro impiegati sorpresi a falsificare atti o a sottrarre documentazione dagli archivi. Lapidarie in questo senso le parole del Presidente Valentino Bandini (succeduto a Ribet), riportate in una relazione del 6 ottobre 1947:
Ai problemi riscontrati nella gestione quotidiana delle attività della Commissione si sommavano le complicate relazioni con gli uffici centrali, che avevano al centro il tema della difficile normalizzazione dell’esperienza partigiana
Le difficoltà incontrate dalla Commissione lombarda, in buona parte condivise anche dalle altre commissioni operative nel Nord-Italia sono ben riassunte dalla relazione di sintesi di un incontro svoltosi a Milano il 27 febbraio del 1946 tra i presidenti delle commissioni di Liguria, Emilia Romagna, Triveneto e Lombardia. La relazione, a firma di Ribet e degli altri presidenti venne inviata alla Sezione V del Ministero dell’assistenza post-bellica, all’attenzione dell’on. Gasparotto. La relazione rilevava che «a tutti i quesiti di una certa importanza che sono stati rivolti a codesto Ministero non è mai stata data una risposta precisa e concreta: anzi, nella maggior parte dei casi, non è stata data alcuna risposta» e che più in generale «invece di avere un concreto aiuto da codesto Ministero, le Commissioni vengono gravate da richieste di specchi e di dati che rivelano scarsa conoscenza della reale situazione dell’ambiente partigiano da parte di chi le formula e impongono un lavoro enorme per il quale il personale concesso alla segreteria è nettamente insufficiente». Venivano poi segnalate le carenze del personale assegnato alle Commissioni e l’inadeguatezza dei rimborsi messi a disposizione dei commissari. Veniva lamentata inoltre una scarsa linearità nell’interpretazione dei contenuti del d.l.l. 518/1945, che si era tradotta nella formulazione di disposizioni attuative tra loro contraddittorie.
La situazione non andò incontro ad alcun miglioramento se ancora nell’agosto del 1947 Bandini scriveva all’onorevole Edoardo Martino, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, con delega per l’Assistenza ai reduci e ai partigiani, quanto segue:
Tra queste difficoltà la Commissione lombarda operò fino alla primavera inoltrata del 1950, quando vennero chiusi i lavori relativi allo spoglio dei ricorsi.
Archivio Centrale dello Stato (ACS):
– Ricompart, Commissione Lombarda, busta 6, Carteggio Ufficio 1948-1949 / 1949-1950
– Ricompart, Attività della Commissione lombarda, Carteggio Ufficio, fasc. Missioni e fasc. Attal Augusto
Istituto Nazionale “Ferruccio Parri”:
– fondo Comando militare provinciale di Novara, busta 3, fasc. 16
– fondo Cvl, busta 48, fasc. 111 e busta 53, fasc. 128
[Irene Bolzon]