Il primo presidente fu Alfredo Filipponi, antifascista di lunga data, mentre il secondo fu il tenente colonnello, a riposo, Giovanni Pascoli, già partigiano in Emilia Romagna. La Commissione presieduta da Pascoli, nominalmente in carica dal settembre 1948 alla metà del 1949, era quella ereditata dalla presidenza precedente, con le sostituzioni avvenute nel tempo. Come si vedrà, la questa Commissione non ebbe, in pratica, alcun ruolo, essendo già stata conclusa, all’atto dell’insedimento, l’attività di riconoscimento e operando, il presidente, solo con l’aiuto della segreteria.
La Commissione si riuniva a Perugia, in un primo periodo negli uffici della prefettura, successivamente in alcuni locali affittati dall’Anpi in via Danzetta. Nell’estate del 1949 l’ufficio umbro si spostò a Roma, in via Guidobaldo del Monte, dove gli uffici regionali andavano man mano confluendo.
I verbali di Commissione di entrambe le fasi sono perlopiù dispersi. Al momento ne è stato individuato, presso l’Archivio Centrale dello Stato, un piccolo numero relativo alle sedute del febbraio-marzo 1946, durante le quali si discusse soprattutto del riconoscimento delle principali formazioni attive nella Resistenza umbra. Poiché molti dei commissari erano stati comandanti di formazione, la discussione si svolgeva talvolta anche nei termini di una stretta “contabilità”, con i commissari-comandanti che si contendevano l’attribuzione di una determinata azione partigiana al fine appunto di “contarla” a proprio favore per raggiungere la quantità utile al riconoscimento.
Sebbene di quantità limitata e assai avari nel fornire notizie – i verbali non superano mai la lunghezza di una pagina e qualche riga – i resoconti delle sedute ci danno informazioni utili sul modo in cui la Commissione di Filipponi procedeva nell’esaminare le richieste di riconoscimento. Invece di sottoporre a inchiesta ogni domanda, la Commissione aveva infatti stabilito di riporre «fiducia nei comandanti», che si assumevano la «responsabilità delle dichiarazioni» da essi stessi rilasciate «in relazione agli elenchi dei partigiani già riconosciuti». La Commissione avrebbe effettuato un’inchiesta solo nel caso di contestazioni, ad esempio quando una formazione avesse rivendicato un’azione attribuita ad altra unità.
I verbali ci forniscono anche qualche informazione di tipo interpretativo: ad esempio, dal verbale numero 7 sappiamo che erano considerati «atti di sabottaggio [sic]» quelli «fatti per esempio verso depositi di munizioni sorvegliati»; qualora tali atti avessero avuto un certo rilievo e comportato un «grave rischio personale», essi andavano considerati «atti di guerra» espletati da «partigiani combattenti» (verbale n. 7, 12 febbraio 1946).
Andava anche considerato partigiano combattente il collaboratore che si era assunto incarichi rischiosi «con continuità a favore dei partigiani». Ciò valeva pure per i membri del Cln clandestino; per quanto riguardava, invece, coloro che avevano preso parte solo a qualche azione nel periodo immediatamente successivo all’armistizio, e in seguito si erano sbandati, la Commissione stabiliva che avrebbero potuto essere riconosciuti se avessero «partecipato a combattimenti e se il [loro] comportamento [fosse] stato meritevole, perché […] bisognava tenere presente lo spirito che animava questi ragazzi, quando i bandi di arruolamento non erano ancora stati pubblicati e [… ] molti per ragioni di famiglia e per altri motivi, non [avevano] potuto fare di più di quanto hanno fatto».
Nell’estate del 1948 la Commissione guidata da Filipponi dichiarò di aver portato a termine il proprio lavoro e quindi concluso l’attività di riconoscimento. Qualcosa, tuttavia, non dovette convincere il Sottosegretariato per l’assistenza ai reduci e ai partigiani, che «contestò numerose irregolarità formali e il grave disordine in cui versava il carteggio della Commissione; chiese inoltre di revocare i riconoscimenti concessi a chi aveva presentato domanda oltre i termini previsti e ai partigiani che mostravano di avere solo requisiti di patrioti; prospettò infine l’eventualità di addebitare al presidente e al segretario della Commissione il danno subito dall’erario pubblico per gli indebiti riconoscimenti». A quel punto Pascoli fu nominato presidente della Commissione e diede il via a un generale riordinamento e controllo dell’operato del lavoro svolto fino ad allora. Oltre a verificare i riconoscimenti concessi, il nuovo presidente lavorò per recuperare quote del premio di solidarietà nazionale a suo parere indebitamente erogate. Nel novembre del 1948, dopo aver verificato ogni singolo nominativo e aggiornato lo schedario, Pascoli comunicava al Sottosegretariato che la Commissione umbra aveva riconosciuto 3.782 partigiani e 1.810 patrioti; i caduti erano 488, gli invalidi 107, i feriti 46 e i mutilati 7. I non riconosciuti assommavano a 810, mentre gli indegni erano 5. L’anno successivo, tuttavia, Pascoli tornava sull’argomento e comunicava che un nuovo «accurato controllo» aveva permesso di individuare 356 nominativi – 162 uomini e 194 donne – che non possedevano i requisiti previsti dal decreto luogotenenziale 518/1945, e che quindi non potevano conservare la qualifica, precedentemente attribuita loro, di partigiani combattenti, ma dovevano essere “retrocessi” a patrioti. Il presidente dell’Umbria proponeva dunque alla Commissione nazionale di procedere a tale retrocessione in quanto l’«errore» di quei riconoscimenti andava «a tutto detrimento della compagine partigiana dell’Umbria con evidente discredito per la stessa Commissione che, non tenendo conto delle disposizioni contenute nel citato D.L.L. 518, ha provveduto arbitrariamente ai riconoscimenti» (comunicazione a firma di G. Pascoli, 11 febbraio 1949). Pascoli esaminò anche la posizione di alcuni partigiani riconosciuti che avevano prestato servizio per la Rsi, e provvide a denunciarli agli uffici centrali.
La vita della Commissione umbra e dei suoi membri fu, dunque, abbastanza tormentata. I primi problemi, a quanto emerge dalla documentazione, si verificarono a inizio 1947, quando tre commissari – Bonanni, Cantarelli e Monacelli – furono deferiti all’autorità giudiziaria per «accertamenti di irregolarità amministrativa» (comunicazione di A. Filipponi alla Presidenza del Consiglio dei ministri – Assistenza Partigiani, 26 febbraio 1947). Successivamente, alcuni commissari in attività finirono in carcere o sotto processo, come capitò ad Augusto Del Buon Tromboni nel novembre 1948, processato «per motivi politici […] a causa di un incidente tra comunisti e monarchici» – la documentazione non ci restituisce altre informazioni – insieme a uno degli impiegati della Commissione, Walter Cecchini.
Ancora, il primo presidente, Filipponi, dovette rimborsare di tasca propria il denaro – circa 53.000 lire – sottratto alla Commissione durante un furto avvenuto nell’estate 1948, perché fu accusato di negligenza. Altri membri, cessata la loro attività, furono denunciati dal nuovo presidente per avere, quando erano commissari, rilasciato certificati attestanti la qualifica di partigiano a chi non ne aveva diritto o a chi addirittura aveva militato nelle formazioni repubblicane. Infine, anche Pascoli fu denunciato, dai commissari, per aver occultato alcuni elenchi di riconosciuti, in particolare il verbale n. 75, l’ultimo della Commissione precedente, reso nullo, come il corrispondente elenco di riconosciuti, da Pascoli stesso, che vi aveva riscontrato numerose irregolarità. I commissari, tutti comandanti o alti gradi delle formazioni, non erano però d’accordo e sostenevano che il neopresidente, così facendo, metteva in discussione dinanzi all’opinione pubblica non solo il prestigio della Commissione ma l’intera Resistenza umbra. La questione, fra denunce, querele e articoli di stampa, andò avanti per mesi, finendo con il coinvolgere gli uffici centrali e provocando una ridda di reclami e ricorsi; Pascoli a un certo punto propose di revocare il mandato a tutti i suoi stessi commissari, che avevano appoggiato la denuncia contro di lui portata avanti dagli ex presidente e segretario.
Al di là di queste vicende, la ricca documentazione amministrativa della Commissione umbra ci fornisce alcune informazioni generali relative al lavoro degli uffici e, anche, a un più ampio discorso sui riconoscimenti e il loro significato. Grazie alle carte contenute in una busta di varie, ad esempio, veniamo a conoscenza di numerosi dettagli relativi al funzionamento delle segreterie di commissione, animate da cinque impiegati assunti tra i ranghi dei partigiani e dei patrioti riconosciuti. Sull’altro versante, abbiamo la conferma del peso, politico e non solo, delle qualifiche, peso che risulta evidente se si considera, ad esempio, che l’elezione dei delegati Anpi avveniva «provincialmente sulla base delle grandi formazioni a carattere nazionale ed in rapporto al numero dei riconosciuti» (lettera dell’Anpi a firma del presidente Arrigo Boldrini ai presidenti di Commissione, 24 novembre 1948).
Le carte, inoltre, forniscono informazioni concernenti le «forniture ai Partigiani durante il periodo dell’occupazione», le denunce per indegnità morale, la normativa per l’attribuzione dell’anzianità di servizio in caso di promozioni per merito di guerra, quella relativa all’assegnazione delle medaglie d’oro a partigiani in vita e, in generale, al conferimento delle varie forme di riconoscimento onorifico. Infine risultano centinaia le “segnalazioni” relative a partigiani, o aspiranti tali, di tutta Italia, provenienti da esponenti politici anche di primo piano.
Alvaro Tacchini, Guerra e Resistenza nell’alta valle del Tevere (1943-1944), Città di Castello, Petruzzi, 2015.
Dizionario biografico umbro dell’antifascismo e della Resistenza
Archivio Centrale dello Stato:
– Ricompart, Commissione Umbria, busta 55 “Umbria Commissione umbra 46-47, 47-48, 48-49, 49-50”
– Ricompart, Commissione Umbria, busta 56 “Umbria Elenchi vari”
– Ricompart, Commissione Umbria, busta 62 “Umbria varie”
[Isabella Insolvibile]