Nome: Commissione regionale riconoscimento qualifica partigiani Emilia Romagna
Giurisdizione: Emilia-Romagna
Sede: Bologna
Presidente: Leonillo Cavazzuti
Segretario: Aldo Cucchi
Rappresentanti del Ministero della Guerra
Rappresentanti Anpi:
Formazioni Matteotti
Formazioni Autonome
Formazioni Fiamme Verdi
Formazioni Garibaldi
Formazioni GL
[È qui segnalata la composizione nella seduta del 27 dicembre 1945]
La prima riunione collegiale della Commissione regionale riconoscimento qualifica partigiani Emilia-Romagna si tenne il 27 dicembre 1945 a Bologna in via Garibaldi 2.
Il presidente era il capitano di fanteria Leonillo Cavazzuti, modenese, aderente al movimento democratico cristiano, già membro del Comitato di Liberazione Nazionale di Modena e vicecomandante del Comando unico militare Emilia Romagna (Cumer), organo deputato al coordinamento militare della Resistenza in regione. Le funzioni di segretario, per designazione unanime degli altri membri nella prima riunione, vennero affidate al reggiano Aldo Cucchi, medico, comandante e in seguito commissario politico della 7ª brigata Gap a Bologna, nonché vicecomandante della divisione Bologna. Cucchi e il reggiano Bruno Veneziani, sottotenente dell’esercito addetto al Comando Nord Emilia della Resistenza, rappresentavano le brigate Garibaldi organizzate dal Partito comunista, compagine da cui Cucchi si allontanò con grande clamore nel 1951.
Le Brigate Matteotti erano rappresentate da due socialisti bolognesi: Luigi Mari, commissario politico della brigata Toni Matteotti Montagna, che aveva operato sull’Appennino Tosco-Emiliano, e Bruno Marchesi, comandante della 5ª brigata Bonvicini Matteotti attiva nella zona tra Medicina e Molinella, protagonista di forti attriti con la componente comunista della Resistenza bolognese. Nella Commissione Marchesi sostituì dopo la prima riunione Anselmo Martoni, già commissario politico della 5ª brigata Bonvicini, designato sindaco di Molinella nei giorni della Liberazione.
In quota alle Brigate Fiamme verdi di ispirazione cattolica erano Sergio Bertogalli, commissario politico della brigata parmigiana Pablo, e Oliviero Bortolani, tenente carrista che aveva aderito alla Resistenza modenese, scampato rocambolescamente alla rappresaglia tedesca di San Giacomo di Roncole.
Il medico Giuseppe “Pino” Nucci, comandante della brigata Santa Justa insediata nella zona di Sasso Marconi, rappresentava le brigate autonome affiancato da Giovanni Rossi, vicecomandante della brigata Stella Rossa rimasto ferito nelle prime fasi della strage di Monte Sole-Marzabotto. Per le formazioni di Giustizia e libertà partecipavano ai lavori della Commissione il perito industriale piacentino Giuseppe Guarnieri, in sostituzione di Filippo Lalatta (membro quest’ultimo del Cln di Piacenza), e l’ufficiale di artiglieria Pietro Pandiani, originario di Taranto, comandante della brigata Gl Montagna con base sull’Appennino Bolognese tra Gaggio Montano e Castel D’Aiano.
Il Ministero della guerra, infine, aveva designato quali suoi rappresentanti gli ufficiali Carlo Zanotti e Adriano Oliva: il primo era stato dirigente della Divisione Modena e della Divisione Bologna, l’azionista Oliva aveva operato a contatto con il Cln reggiano.
Il richiamo al rigore nel giudizio era ben presente nelle parole del Presidente. La Commissione, secondo Cavazzuti, poteva comprendere l’operato dei comandanti delle formazioni partigiane che nei mesi precedenti avevano agito con «una certa larghezza […] nell’andare incontro a casi pietosi per fare loro concedere il premio di smobilitazione». Inoltre, non egli eccepì sul fatto che gli stessi Comandanti potessero rivedere i ruolini delle brigate per riportarli al numero reale dei combattenti nel periodo resistenziale, «ma nessuna pietà per coloro che, ora, al momento decisivo di dare il crisma definitivo al Partigiano, insistono nell’avallare gente non meritevole. È un tradire i nostri morti. Si potrà spiegare una certa larghezza nel riconoscimento dei Patrioti, ma i Partigiani pochi erano e pochi debbono ritornare, e da quei pochi vanno decisamente cancellati quelli che si sono macchiati di reati comuni infamanti». Probabilmente Cavazzuti era preoccupato non solo per l’atteggiamento generoso dei comandanti ma anche per la situazione dell’ordine pubblico. Da qui l’invito – per i membri della Commissione – di giudicare «con la più rigida severità», poiché occorreva eliminare «decisamente ed indefettibilmente tutte le scorie che appesantiscono ed infangano le nostre file».
Il lavoro della Commissione aveva il suo perno nelle figure dei Comandanti, mediatori indispensabili per fare in modo che la qualifica di partigiano o patriota venisse attribuita a individui che realmente avevano militato nella Resistenza. Ai commissari il compito di valutare e approfondire quanto dichiarato dai dirigenti partigiani: «richiamare l’attenzione dei Comandanti di formazione sulle gravi responsabilità che si assumono avallando individui indegni, ogni membro della Commissione ha l’obbligo di fare sondaggi ed indagini, e di denunciare spietatamente chi ha mancato».
Toni e argomenti ripresi dal segretario Cucchi nella riunione del 12 marzo 1946, quando, dopo aver definito “soddisfacente” l’attività della Commissione fino a quel momento, «ribadisce ancora una volta il principio di mantenere il numero dei riconosciuti entro i limiti numerici dei ruolini effettivi del periodo cospirativo. Il pericolo di un numero di “Partigiani Combattenti” superiore a quello reale deve essere eliminato da un vaglio severo e scrupoloso che ponga il Comandante della formazione nell’impossibilità d’aumentare il numero dei riconosciuti senza dover escludere i veri combattenti, i quali naturalmente gliene chiederebbero ragione».
Le richieste di riconoscimento, presentate su apposito modulo alla Commissione e suddivise per formazione, erano esaminate da due commissari referendari, di cui uno dello stesso “colore” dell’unità sotto esame. Gli incaricati, nominati nella riunione del 31 gennaio 1946, dovevano prendere immediato contatto con il comandante della formazione, ricordandogli criteri e principi del lavoro in corso.
Nonostante le raccomandazioni e le minacce di sanzione, alcuni dirigenti partigiani continuavano a proporre riconoscimenti ritenuti eccessivi: «la Commissione esprime, all’unanimità, parere sfavorevole per la concessione di qualsiasi ricompensa al V.M. al Vol[ontario], non ritenendolo meritevole di alcuna ricompensa, data la larghezza con cui il comandante di brigata ha proposto i suoi uomini». In alcuni casi la Commissione reagì duramente. Esemplare fu il caso di una donna modenese avviata al riconoscimento della qualifica partigiana su proposta del comandante di un distaccamento e che si vide sospendere la pratica «per l’intervento di alcuni partigiani della zona che dichiararono che la stessa non aveva mai fatto parte del loro distaccamento. Pertanto […] viene deciso di conferirle la qualifica di “Patriota”. Al Comandante che la propose per la qualifica partigiana non sarà riconosciuta alcuna qualifica gerarchica».
Consapevole di esporsi a rischi di contestazione, la Commissione decise subito di non seguire le istruzioni governative sull’obbligo di pubblicazione dei nomi di quanti non ottennero il riconoscimento di partigiano o patriota: «si ritiene che, per evidenti ragioni di opportunità e di delicatezza, non sia opportuno attenersi a questa norma in quanto il mancato riconoscimento può dar luogo, da parte del pubblico, ad errate interpretazioni sulle cause che lo hanno determinato». Negli albi dei comuni e delle sezioni provinciali dell’Anpi venivano così affissi solo gli elenchi dei partigiani e dei patrioti riconosciuti, oltre ai caduti e mutilati.
Nel luglio 1946, in piena fase operativa, la Commissione comunicò alla Presidenza del consiglio che erano già stati riconosciuti 16.000 partigiani, mentre con «larga approssimazione» si prevedeva di riconoscerne altri 30.000. Gli elenchi dei riconoscimenti approvati definitivamente vennero inviati a Roma a partire dal febbraio 1946 e le riunioni, in media 20 al mese, si susseguirono a ritmo serrato fino al 30 dicembre 1947, data dell’ultimo incontro.
Le sedute plenarie del sabato mattina erano dedicate alla trattazione dei casi dubbi. Fin da subito emerse il dato più controverso su cui decidere: la valutazione su eventuali trascorsi nella Repubblica Sociale Italiana. I commissari si trovavano di fronte all’esito di una guerra che aveva diviso gli italiani e che aveva dato impulso anche a decisioni ondivaghe sulla scelta di campo, frutto di ripensamento, opportunismo o convinzione. Tra i pochi punti di riferimento vi erano i documenti che attestavano l’opera d’infiltrazione della Resistenza nelle file fasciste, viatico per il riconoscimento dell’attività partigiana: «sono da considerarsi valide le autorizzazioni a prestare servizio o quanto meno giuramento alla Repubblica Sociale Italiana, rilasciata [sic] dal Comando Unico, dai Comandi Zona operazione, dal Comando Piazza del C.L.N. Provinciale». Per il resto era necessario esaminare caso per caso e talvolta la Commissione si divideva. Un volontario di Giustizia e libertà che per tre mesi aveva fatto parte parte della Guardia nazionale repubblicana si vide riconoscere la qualifica di patriota «per la sua notevole attività partigiana» con 9 voti favorevoli e 4 contrari. Un caso analogo richiese l’impegno in prima persona del commissario Pietro Pandiani, il quale fu «disposto a rilasciare una dichiarazione circa l’attività eccezionale» di un suo partigiano con alle spalle un breve periodo nella Gnr: la Commissione si mostrò disponibile ad esaminare il caso dell’uomo («eventualmente gli sarà rilasciata la qualifica di Partigiano») e l’intervento di Pandiani portò effettivamente al riconoscimento.
Le direttive di un comandante caduto nella strage di Monte Sole-Marzabotto ebbero un valore vincolante per la Commissione, così che un carabiniere rimasto in servizio nel bolognese dopo l’armistizio, venne riconosciuto partigiano della Stella rossa «dato che il servizio nell’Arma dei Carabinieri dopo l’8 settembre 1943 è stato ordinato dal Comandate [sic] della Brg. Stella Rossa, Mario Musolesi». Quando la collaborazione con il nemico prevaleva sul supporto alla Resistenza la Commissione non aveva dubbi e un maggiore dell’esercito che riteneva di avere i requisiti per l’avanzamento di grado incappò nel suo dissenso: «la Commissione esprime all’unanimità parere sfavorevole, avendo detto ufficiale collaborato con il Comando Germanico come interprete. Pur riconoscendo a detto ufficiale una piccola collaborazione al movimento clandestino, non lo ritiene meritevole di alcuna ricompensa in quanto la sua attività è stata insignificante».
La sospensione di una pratica di riconoscimento era un chiaro segnale sulla necessità di approfondimenti, l’attesa e il timore di un parere negativo spingevano alcuni richiedenti fino alla minaccia esplicita ai commissari. La prudenza sugli elenchi da affiggere si dimostrò fondata, ma in tali occasioni serviva una risposta netta. La Commissione, così, respinse le domande in sospeso di tre uomini che «avevano prestato servizio nelle formazioni repubblichine» e li denunciò all’autorità giudiziaria dopo l’invio di una lettera al membro della Commissione Guarnieri per sollecitarlo «ad evadere favorevolmente le tre pratiche e contenente minaccie [sic]».
Nel dicembre 1947 terminò l’attività di valutazione della Commissione regionale. Si trattò di un lavoro imponente: in attesa degli scostamenti dovuti alle valutazioni dei ricorsi e alle pratiche sospese (sui feriti, ad esempio, occorreva una valutazione medica) i partigiani bolognesi riconosciuti erano circa 14.000. Sulla stessa cifra si attestavano i riconoscimenti ai partigiani modenesi, i ferraresi toccavano quota 1.400, reggiani e piacentini si attestavano entrambi sulla cifra di 6.000 riconoscimenti, i parmensi su 8.000; i riconoscimenti per i partigiani ravennati erano circa 5.000, quelli per i forlivesi oltre 3.400.
Nel 1948 il testimone passò alla Commissione di secondo grado con sede a Roma, chiamata a valutare i ricorsi di quanti ritenevano di non aver ricevuto un riconoscimento adeguato dall’organismo presieduto da Cavazzuti. Il presidente, il segretario Cucchi e il personale di segreteria nei tre anni successivi perfezionarono il lavoro sulle qualifiche gerarchiche, tennero i rapporti con la Commissione di secondo grado, con i comitati Anpi provinciali e con il Sottosegretariato per l’assistenza ai reduci e ai partigiani della Presidenza del consiglio, comunicarono le decisioni sui ricorsi ai diretti interessati e rilasciarono dichiarazioni firmate sulle qualifiche spesso per “uso lavoro”, nell’ottica di favorire l’inserimento lavorativo degli ex partigiani.
Archivio Istituto storico Parri
– fondo Commissione regionale riconoscimento qualifica partigiani Emilia-Romagna, busta 1, fascicolo 1; busta 19, fascicoli 196, 201, 202, 203, 204, 205.
Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia: Episodio di San Giacomo Roncole, Mirandola, 30.09.1944
Luigi Arbizzani, I comunisti e la Resistenza, in Garibaldi combatte, Quaderno de “La lotta”, 4, 1965
Severo vaglio alle qualifiche partigiane, in «Giornale dell’Emilia», 28 dicembre 1945.
[Luca Pastore]